Cultura

Presentazione Libro “Il borghese in sentimento”

Il borghese in sentimento
Il borghese in sentimento – di Alberto Pasqua

Copertina

Amedeo Modigliani, Ritratto di Paul Guillaume, 1915, Musée de L’Orangerie, Parigi


Venerdì 3 Marzo h.18:00 Emilia Bonaccorsi presenta e dialoga con l’Autore:

“Il borghese in sentimento” di Alberto Pasqua

Mondadori Bookstore – Catania via Coppola , 72-74-76 – 95131 , CATANIA (CT)

La presentazione sarà aperta a tutti.


Sicilia, anni Ottanta. Ferruccio è un ingegnere trentenne, la cui vita subisce una svolta inaspettata dall’incontro con la bolognese Vica. Lui, di famiglia medioborghese, è un liberale, culturalmente avvertito, di coltivate letture e buon dicitore. Lei è una ragazza altoborghese, algida e di sobria raffinatezza. Emergono nel loro rapporto le differenze tra i due e l’ombra di un delitto rimetterà tutto in discussione.


Ing Alberto Pasqua

Alberto Pasqua, nato a Catania, ingegnere, collabora con il quotidiano “La Sicilia”Ha firmato varie pubblicazioni e due volumi per la “Nuova Italia Scientifica” e per “Il Sole 24 ore”. Osservatore della politica e della vita contemporanea, liberale d’ispirazione anglosassone, è un estimatore della lingua italiana con il gusto della narrativa. E’ insofferente ai dogmatismi ideologici e al conformismo dell’anticonformismo.


Introduzione

Il Sud, la Sicilia, una geografia spinosa. Una città, distante dalle capitali e dal capitale. Ci viveva Ferruccio, ingegnere nella periferia del regno. D’improvviso la conoscenza di lei. Qui, una di Bologna. Ferruccio la mirava e rimirava. Schietta eleganza, garbo senz’artifici, gentili geometrie gestuali. Donna latitudine nord. Una sensualità, temette, riservata ai privilegiati. Bella. Anzi no, qualche cesellatura d’artista poteva migliorarla. Ferruccio s’inoltrò nel cammino fatidico del sentimento. S’azzardava già a immaginarsi felice. La sua realtà la vedeva ora spoglia e triste. Lei gli disse di sì e lo folgorò di gioia, irradiando di luce e colore il suo mondo, ormai insopportabile senza la sua grazia. Il suo mondo, quello marcato d’arretratezza e marginalità, la Sicilia eppure sfavillante e incantata. Ora c’era lei. Lei sì a Statuto speciale, la soluzione per Ferruccio della “sua” questione meridionale. Lei non era entrata nella sua vita usata, ne era l’àuspice d’uscita, la guida verso un altro stato dell’esistenza. Ma un cacciatore crudele la bramava. Ferruccio lo avvistò. Ci furono giorni opachi e il giorno nero.

Tratto da “La Sicilia del 03.07.2023

Mondadori Bookstore

Catania via Coppola , 72-74-76
95131 , CATANIA (CT)

Tel. 095 315160

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Riferimenti Film

npag.rigofilmregiainterpreti principalianno nel testo
1 38 17 Totò principe di Capri Luigi Comencini Totò, Yvonne Sanson, Mario Castellani 1949 “serva di Totò
211020 ManhattanWoody Allen Woody Allen, Mariel Hemingway 1979
31447Gloria una notte d’estateJohn CassavetesGena Rowlands1980“Fermata d’autobus”
414711Fermata d’autobusJoshua LoganMarilyn Monroe, Don Murray1956
51483ultimoAnna kareninaClarence BrownGreta Garbo, Fredric Marcc1935
61674ultimoNotoriousAlfred HitchcockIngrid Bergman, Cary Grant1946
718017Ganster’s storyArthur PennWarren Beatty, Faye Dunaway1967
81834ultimoGli anni di piomboMargarethe von TrottaJutta Lampe, Barbara Sukowa1981
918511Tutti gli uomini del PresidenteAlan J. PakulaRobert Redford, Dustin Hoffman1976
102665Pane amore e …Dino RrisiSofia Loren, Vittorio De sica1955“femme de chambre all’hotel Eccelsiòr”
1118Le mani sulla cittàFrancesco RosiRod Steiger, Salvo Randone1963
122922Rocco e i suoi fratelliLudovico ViscontiAlain Delon, Renato Salvatori, Annie Girardot1960
1316La donna che visse due volteAlfred HitchcockJames Stewart, Kim Novak1958
1429319Le piace Brahms?Anatole LitvakIngrid Bergman, Anthony Perkins, Yves Montand1961
152945Via col ventoVictor FlemingVivien Leigh, Clark Gable, Leslie Howard1939“Rossella O’Hara”
1616Mezzogiorno di fuocoFred ZinnemannGrace Kelly, Gary Cooper1952
1721Un dollaro d’onoreHoward HawkJohn Wayne, Dean Martin,1959
183262My fair ladyGeorge CukorAudrey Hapburn, Rex Harrison1964“La strada dove dove so che vive un angelo”
1935716L’appartamentoBilly WilderJack Lemmon, Shirley MacLaine1960“C.C. Baxter che si tiene in casa la Kubelik”
204389Il conte MaxGiorgio BianchiAlberto Sordi, Vittorio De Sica1957“Capracotta”
214519Baciami stupidoBilly WilderKim Novak, Felicia Farr, Dean Martin, Ray Walston1964ultimo rigo dell’ultima pagina

Estratto Brani

1.

Per i figli di famiglia, in quegli anni, vivere ancora nei luoghi d’origine era la normalità e andare fuori una
stravaganza.

Nel Meridione il lavoro ancora si trovava, la vita era semplice, le ambizioni non troppe e i concorsi si potevano vincere. La Demo- crazia Cristiana dava una e più mani con le raccomandazioni.
E anche la città cercava di fare del suo meglio: ampia, luminosa e calda, marittima e palmizia, il litorale sconfinato, la montagna. Un paradiso geografico. E poi, a quell’epoca, esprimeva ottimismo, sembrava promettere un domani.
Mentiva, come il tempo avrebbe dimostrato.
Negli anni e nei decenni che seguirono, infatti, man mano che il futuro si svolgeva nel presente, non soffiò il vento della crescita, non percosse l’aria il frastuono delle opere, non s’alzarono moderne architetture, non si diffuse la pacatezza rassicurante di nuovi civismi.
La sua umanità, emotiva e sanguigna, restava improduttiva, infingarda e canagliesca.
La città, a parte il selvaggio dilagare dell’abitato, attraversava il tempo rimanendo ostinatamente la stessa. L’humus sociale della prima ricchezza degli anni Sessanta, che sembrava fecondo, s’andò col passare del tempo disseccando e crepando, i semi morenti nella zolla.
Come accadeva d’altronde in tutte le terre meridionali.

La zona intorno a quella grande piazza è la parte costiera della città e tra le più eleganti: i viali, le belle vetrine, gli edifici ben costruiti, le ville Liberty, il benessere del terziario e del buon affare e malaffare borghese.
Poi c’è la parte storica, anch’essa affacciata sulla costa, fatta d’antica architettura e tagliata da grandi vie e vicoli, chiese e cupoloni, palazzi nobili con portali, tribune, cornici, atri, corti e giardini interni. Le loro forti facciate, continue una dopo l’altra, fanno quinte compatte sui selciati di basalto. Dietro queste ribollono mercati e fiere, bassifondi e suburre.
Infine, a sud, la città scivola incontrollata nella sterminata pianura, là sfigurandosi, piatta, interminabile e
disgregata, landa di case popolari, costruzioni terrane, edifici spontanei, gruppi di torri abitative, grandi piazzali, sequenze di depositi commerciali che sembrano paesi. È un territorio in cui corrono tangenziali e rettilinei ferroviari, volano sopraelevate e svincoli generati da equivoci appalti. Di notte, in certe zone non brillano lampioni e insegne, ma solo le deboli luci di avamposti di polizia e carabinieri. C’è una popolazione eterogenea, masse di provinciali e profughi dalle campagne, famiglie di malavitosi e carcerati, stanze violente, cortili di droga, figlie già madri a tredici anni; ci sono le case degli ambulanti, gli agglomerati impiegatizi, le cooperative residenziali d’ogni categoria, compresi i condomini degli agenti di questura. Sessantamila abitanti stanziali di una iper-periferia appesa alla città centrale, ma da questa separata. Sono cittadini e non lo sono. Ed è una lontananza reciproca, perché i bravi
borghesi in questi posti non ci mettono piede.
Una volta, per il suo lavoro e per conto del Comune, Ferruccio aveva partecipato come ospite al Consiglio di uno dei quartieri in cui è suddivisa questa città oltre la città. Vi ascoltò richieste, fu interrogato e rispose. Ebbe la sorpresa di trovare persone composte e rispettose, che lo accolsero come uno che voleva portare buone notizie. Parlò con calorosa e giovanile sincerità di nuovi servizi, di un parco, di un padiglione per lo sport, di un Centro di Quartiere, di nuove linee bus. Erano cose vere, quanto vere possono esserlo le cose disegnate e scritte nel Piano Regolatore. Ma non era colpa sua se il Piano carta è, e carta rimane, e se i piani particolareggiati non ci sono. “Però se qualcuno vuole
fare qualcosa – si lamentò il Presidente, un tizio corpulento, impomatato e, a quanto sembrava, di buona istruzione – che so, una casa, un negozio, una ristrutturazione, ecco che il Piano Regolatore si fa cosa viva, ti blocca e ti minaccia con le Norme d’Attuazione e con il Regolamento Edilizio”. È questa la città dove Ferruccio era tornato a vivere ed esercitare, distante dalle capitali e dal capitale, ingegnere delle colonie,
professionista nella periferia del regno.


2.

Lui, il Meridione, lo detestava.
Il Sud, il Mezzogiorno, la Sicilia, la geografia delle vite minori, con l’ampio corollario di parole come
“arretratezza”, “marginalità”, “sottosviluppo”, “degrado”, “gap”, “differenziale”: lessico identificativo di una
civiltà seconda e della qualità seconda di chi è nato meridionale.
Storici ed esperti fingono di cercare origini, cause e circostanze: il Risorgimento, i piemontesi, il dopoguerra, il clima, la mafia, la politica, l’assistenzialismo, gli interessi del nord. Parlano di soluzioni inventando vocaboli,
locuzioni e fandonie che suonano bene, come “crescita autopropulsiva”, “sviluppo autocentrato”, “capitale fisso sociale”. “Balle” pensava.
Comandano i fatti. Agricoltura, industria e servizi boccheggiano e agonizzano. L’esercizio quotidiano della
cittadinanza trova amara soddisfazione più nelle conoscenze e nelle raccomandazioni che nella macchina
amministrativa; la ben nota prassi, cioè, del diritto come favore.
Nelle aree avanzate del mondo vige il sistema delle funzioni, dei ruoli e delle responsabilità. Al sud vince il sistema bi-relazionale: ciascuno deve dare e ricevere come conosciuto e conoscente. Senza questo doppio ruolo si va a binario morto.
Da un tessuto sociale così, non possono che rampollare l’astuzia obliqua, l’arte di arrangiarsi, la sudditanza ai ras e ai politicanti, l’irresistibile tentazione di turlupinare il prossimo, il piacere del comando e della sopraffazione, la fedeltà e la lealtà offerti, non già all’amicizia o al civismo, ma all’ubbidienza d’onore a chi ha una pericolosa rispettabilità o alla mafiosità che, come sosteneva l’amico Lorenzo, aveva da lì, dalla Sicilia, infettato mezzo pianeta.
Il Sud non decollerà mai, ne era convinto. Il Principe di Salina non si sbagliava quando smorzava gli entusiasmi di Chevalley.
Le ricette sono buone solo per i gonzi e per i parolai intellettuali leccapiedi dei politici cacciatori di consenso. Chi comanda, le soluzioni le promette ma non le vuole.


3.

La “muratura”, così la chiamava sbrigativamente e un po’ sprezzantemente, era una cosa seria, e lui la percepiva anche triste. Se poi si faceva per commessa pubblica, era ancora più seria, e pericolosa, potendo degenerare in faccenda giudiziaria, e il solo pensiero lo inorridiva.

La muratura in casa, poi, quella fra le mura domestiche, la riteneva una iattura, una voce dell’elenco delle
tribolazioni che avviliscono il vivere di una persona e la pace d’una famiglia.
Se lo ricordava ancora. Suo padre ne soffriva al pari di lui, la denunciava come insopportabile coercizione, e la vedeva arrivare come una trasformazione, da potenza in atto, della metafisica del castigo, seppur di secondo rango.
Muratori e artigiani violano privatezza e intimità – diceva – movimentano mobili e suppellettili, accatastano tavoli, sedie, divani, cassettoni, stipi, comò, infilano in sacchi e sacchetti gli oggetti più cari, che poi non si trovano più.

Riempiono la casa di detriti, rottami e polvere, polvere come una nebbia, che si posa e lì rimane per settimane, sempre alimentata, su ogni e qualsiasi superficie, contenitore e concavità.
Domandano denaro in continuazione, tirano fuori riparazioni e lavori non previsti, sempre irrinunciabili o urgenti, scoprono immancabilmente magagne fatte dalle maestranze che li precedettero a suo tempo.
Devono poi essere seguiti e controllati, non puoi distrarti. E soprattutto tramano per sforare il preventivo.
Il preventivo. Quello che, al tavolo di cucina, il pater familias en la moglie seguono trepidanti mentre il capomastro, con le dita tozze e la matita rozza, compila e somma, elencando e scrivendo su un pezzo di carta. Preventivo fatalmente sempre più alto di quello
sperato, che viene infine subìto con rassegnazione dopo penosi mercanteggiamenti.
Quindi lo stesso capomastro si alza e concretizza la minaccia, e l’ansia affiora negli occhi dei padroni di casa: “Lunedì cominciamo il lavoro”.
Arrivano alle sette del mattino. Si aprono le porte del caos. Scorrazzano per la casa, borbottano fra loro frasi incomprensibili, chiedono permesso qua, permesso là, costringono a un’acrobatica igiene e a pasti di fortuna, rompono e sgangherano, assordano con ogni genere di attrezzo meccanico ed elettrico, consumano le risorse immunitarie della salute dei padroni di casa, esasperandoli e stancandoli, che verrebbe voglia di cercare una grotta dove rifugiarsi.
Suo padre, l’ultima volta che si trovò in questo teatro di belligeranza, entrò in una preoccupante depressione. Si temette che s’ammalasse. Durante i lavori, che durarono venti giorni, vagava per le stanze, prendeva calmanti per dormire, si sforzava di affrontare gli operai cercando, anche blandendoli, di superare la prostrazione, delegava molte decisioni alla moglie.
“Che ti vengano i muratori in casa”, si dice da molte parti per augurare frastorni a qualcuno

L’ingegnere, ne era convinto Ferruccio, salvo che non estenda ad altro il suo raggio d’azione o sia un genio per opere d’imperitura grandezza, è solo un tecnico o poco più; non gloria, non comando, non arte, non politica. Alla base delle scienze ingegneristiche c’è la matematica. Bene, l’ingegnere (vien da dire l’ingegnerucolo), non gode nemmeno di quella. Non ne coglie l’armonia creativa, la usa solo come codice operativo. Le matematiche tutte, nella loro perfetta incorruttibilità, sono l’unica astrazione umana ascendente al mondo delle idee, scrittura della sinfonia cosmica e, perché no, grazia ordinatrice dell’intuizione artistica. Tutto ciò negato all’ingegnere incolto, osservatore del mondo solo sub specie sensuum.
Certo, il titolo d’ingegnere suona bene davanti al cognome, godendo tale professione di un indiscutibile prestigio. Del tecnico, Ferruccio non aveva l’inclinazione. Non era il tipo, per esempio, che si arrangia in casa con l’idraulica o con l’impianto elettrico, che aggiusta la serratura, che sale sulla scala per attaccare una tenda o un lampadario, che fa buchi con il trapano e li tassella. Lo meravigliava la pazienza che vedeva negli artigiani di buon mestiere (purché a casa d’altri o in cantiere). Facevano una cosa alla volta, prendevano il tempo necessario, non saltavano mai una precauzione o una lavorazione intermedia; e poi avevano le mani agili e sapienti; gli attrezzi con loro non erano ostili, non si ribellavano ai loro gesti, si assoggettavano al compito con docilità. Ferruccio invece non aveva mai avuto simbiosi con gli arnesi, sempre perfidi e resistenti, pronti a graffiarlo.

Maturò un’idea per alzare di qualche palmo la qualità del suo la- voro e, più volte, a piccole puntate, ne parlò a Lorenzo, suggerendogli di evolvere la loro attività. Gli offrì lo slogan: “Passiamo dal Progetto al Piano”. Gli proponeva in sostanza di traslare la professione sull’urbanistica, cosa che significa la città, l’aggregato nobile di manufatti e servizi, il motore insediativo del progresso. Fare urbanistica, gli spiegava, è fare anche politica, economia, sociologia ed estetica.
Lorenzo, che era un uomo indulgente e voleva far contento Ferruccio, gli disse che sì, avrebbero potuto tentare la nuova via, senza però lasciare la vecchia.


4.

Vica, a letto, aspettando il sonno, pensava che in fin dei conti era stata una bella serata e che Ferruccio l’aveva sorpresa, non era un tipo qualsiasi. Di bravi ragazzi ne aveva conosciuti, ma lui era diverso. Timido all’inizio, disarmato e disarmante da far tenerezza, aveva tirato fuori a poco a poco una forza gentile. Le cose che diceva, la cultura senza vanto, la faccia schietta. E poi il modo in cui le aveva detto che gli piaceva. C’era stata una partita fra loro due, come sempre succede al primo incontro fra un uomo e una donna, la schermaglia sottotraccia, il duello sensoriale. Sembrava che non sapesse giocare, che non avesse tempra o buone carte. Invece no, alla fine aveva vinto lui, con dolcezza.

L’indomani, domenica, alle dieci e mezza o poco più, dopo una ventina di chilometri lungo la statale costiera, Ferruccio e Ludovica si fermarono in uno spiazzo a margine della strada, in prossimità dell’abitato di un comunello chiamato San Timoteo, dove Ferruccio ricordava una spiaggia poco frequentata.
Parcheggiata l’auto, s’incamminarono verso l’arenile non ancora visibile. Lui davanti e lei appresso, vestita con un prendisole color corda con le bretelline. Passarono attraverso una larga fascia di cespugli e valicarono il rilevato della ferrovia. Sulla massicciata di pietrame sporco brillavano i binari, accesi dal sole, lucidissimi. Sembravano aspettare ansiosi la festa del fragore del successivo convoglio. Attraversarono un uliveto selvatico e profumato, sonorizzato dal corale frinire delle cicale. Non parlavano ma erano allegri, precisamente domenicali. La giornata era abbagliante e quasi afosa. Passato l’uliveto, si aprì davanti a loro una spiaggia panoramica, dove scesero saltando giù da un muretto di contenimento.
Erano in un’insenatura smisurata. A destra e a sinistra la costa fuggiva verso promontori e rotondità verdeggianti che chiudevano la baia, protesi sul mare d’un azzurro vivissimo, sfumati in lontananza dai vapori dell’aria calda.
“Un posto così, dalle mie parti, ce lo sogniamo” mormorò quasi a sé stessa Ludovica, fermandosi un momento per riempirsi gli occhi.
Era stupefacente che in quella riva, e di domenica, si vedessero solo quattro nuclei di bagnanti, distesi e non troppo distanti fra loro, quasi a reciproca difesa; due coppie e due famiglie, contò Ferruccio. Spiccavano sull’oro della sabbia i loro teli colorati presidiati dalle sacche da mare. Uno di questi gruppi aveva piantato un ombrellone. Tre persone erano in acqua. Queste presenze un po’ rassicurarono Ferruccio, che temeva il pericolo dei teppisti.
Si sistemarono allineati alle postazioni dei vicini, si tolsero gli indumenti sopra i costumi e stesero i teli.
La guardò nel suo due pezzi verde scuro. osservò le sue gambe lunghe e la persona slanciata ma non magra. Si interrogò, pizzicato dalla fantasia carnale, sulla sua pelosità inguinale di certo accurata- mente rasata ai bordi per ben contenersi nel costume.
Parlarono, ma poco. Si godettero la mattinata di mare, sulla sabbia o in acqua.
Accadde che, stesi affiancati, i rispettivi mignoli si toccassero. Piccola cosa, ma che fece palpitare il cuore di Ferruccio. Né lei scostò la mano.
Poi lei, raccolta con gli avambracci sotto le cosce e il mento sulle ginocchia, fissò lo sguardo all’orizzonte.
“Tutto bene?” le chiese Ferruccio.
“Tutto bene – rispose – solo un momento di contentezza”. Poco prima dell’una decisero di andare via, umidi, salati, accaldati e fasciati di sole.
Ferruccio, dopo, si sentì stranito, la padronanza di sé indebolita. Questo era l’effetto che gli faceva questa ragazza arrivata da un altrove, un “tipo”, che aveva strane ondulazioni di grazia e disinvoltura.
Ada gli aveva presentato Ludovica come una ragazza semplice, e Ferruccio ne conveniva, ma fino a un certo punto.
Inoltre si era accorto, al mare, nella pace assolata della spiaggia, potendola osservare svestita e senza la distrazione delle chiacchiere, che aveva una carica sensuale non indifferente; carica le cui frequenze gametiche, se non potevano essere avvertite dalla cosessuata Ada, arrivavano molto vivaci ai sensi di Ferruccio.
Magari, alla conoscenza lunga, svaporata la prima seduttività, gli si sarebbe svelata la normalità d’una bella ragazza pur se di un’altra città. Ma al momento lei gli appariva come il personaggio eccitante d’un film romantico con possibile lieto fine e con lui nel promettente ruolo di coprotagonista.
Ferruccio, lo sapeva, cominciava a inoltrarsi nel cammino fatidico del desiderio e forse dell’innamoramento; innamoramento per questa donna altera ed emozionante, spigolosa ma armoniosa, sofisticata ma senza artifici. Non sapeva quanto lei gli avrebbe dato, ma già s’azzardava a immaginarsi felice.


5.

Poco prima di mezzogiorno irruppe sulla piattaforma mare un personaggio che, vestito da città, con pantaloni bianchi disinvoltamente stazzonati e camicia bianca di lino, spiccava fra i bagnanti seminudi. Stava accanto a Lucrezia, con la quale sembrava avere molta amicizia. Dai convenevoli e dalle strette di mano si capiva che con alcuni si conosceva e con altri no. Aveva l’aria frettolosa di chi non intende trattenersi, come se fosse venuto solo per una breve improvvisata. Ferruccio, già alla distanza, si rese subito conto della forza attrattiva del soggetto. “Ben proporzionato, capelli disordinati castano scuro e folti, abbronzato – valutò – il classico bellone sicuro di sé”.
Ludovica, seduta accanto a Ferruccio su uno scoglio, lo seguiva con lo sguardo, distrattamente sembrava. Ferruccio lo scrutò.
Costui venne quindi alla loro volta, con elegante e maschia falcata. A Vica evidentemente era già noto e lo presentò a Ferruccio come “Luca Gerard, architetto”. Avutolo al cospetto, Ferruccio ne fu intimidito. Aveva fascino, dovuto soprattutto alle fattezze non di ragazzo ma di uomo. Era questa forse la sua caratteristica più notevole. Esibiva occhi languidi, un po’ infossati e ombreggiati da spessi sopraccigli, il sorriso anche troppo ampio e compiacente, i denti regolari e puliti. Voleva darsi un’aria rassicurante da bravo ragazzo. Falsa. Il suo sguardo si fece fermo per un lungo momento quando incontrò quello di Ferruccio, uno sguardo diffidente, incoerente con l’affabilità del sorriso a siparietto.
Ferruccio avvertì il pericolo e si agitò. “Se questo stronzo vuole Ludovica, sono perso” pensò “Forse s’è già messo al lavoro”.
Si chiese se fosse lui il “giovanotto interessante” che lei doveva incontrare la sera precedente, e sicuramente era lui il tizio che a Ada non piaceva.
Vica era bella, lui era bello, Ferruccio no. Agli occhi di chi avesse voluto osservarli, Ferruccio doveva apparire il minus. Si sentiva il brutto anatroccolo del trio sopportando un imbarazzo che cercava di dominare.
Stette zitto, non partecipò alla conversazione e lo guardò. Cercò di trovare in lui segni screditanti. Non ne trovò di evidenti. Era pulito, senza zazzere o ciuffi e perfettamente rasato (non ostentava cioè la classica stupida “maschia” barba di un giorno). La camicia aperta al secondo bottone non rivelava né collanine né virili peli toracici. Non portava braccialetti e l’orologio da polso era sportivo. I pantaloni, di taglio classico, erano tenuti da una banale cintura sottile
di cuoio scuro e, infine, i bei mocassini li indossava con le calze, e non a piedi nudi come certuni sozzamente usano.
La parlata era ben modulata e senza accento, i gesti controllati. La sua vistosa presenza, però, dall’abito alle movenze, dal sorriso alle parole, mostrava palesi recitativi. Certo, s’era costruito il personaggio, come fanno i donnaioli. E lui sicuramente un donnaiolo lo era, con la materia prima per permetterselo.
Qualche difetto tuttavia l’aveva, notò con soddisfazione, come i polsi spessi, per esempio, o la attaccatura del naso un po’ tozza, e la bocca larga, che a Ferruccio parve sfrontata, “da coccodrillo” gli venne in mente. Improvvisamente e finalmente l’accurata osservazione gli porse il vero punto debole di questo Luca: le unghie a rana! Certo una pecca non decisiva ma non di poco conto, nel complesso di quell’alta confezione. Alta confezione in vendita. Alle donne.
Ferruccio, in passato, di tipi così ne aveva incontrati e odiati non pochi, ma mai del livello di costui, che senza alcun dubbio doveva essere un cacciatore di femmine esperto e implacabile. Avrebbe sicuramente caricato il fucile a pallettoni per una preda come Ludovica.
Si scocciò ad averlo davanti. Non aveva voglia di stare lì. Si alzò con la scusa di aver bisogno d’ombra e li lasciò soli.
I due rimasero in piedi, l’uno di fronte all’altra, proferendo il loro vaniloquio per qualche minuto. Ferruccio non si era allontanato troppo, e riuscì a sentire buona parte di quello che dicevano. Si dispiaceva che non si fossero visti la sera prima. Lei non disse granché. Ascoltava, con un sorriso rigido che forse neanche s’accorgeva di avere.
Ludovica gli ritornò vicino e gli chiese se voleva fare un bagno con lei. Non gli parlò di Luca, che nel frattempo era andato via, né lo nominò più. “Male”, valutò tra sé Ferruccio, che interpretò questo non dire come il voler nascondere qualche pensiero segreto.


6.

Il giovedì sera del 18 giugno Vica e Ferruccio si videro una mezz’ora per una passeggiata prima di cena. Andarono sulla litoranea e si fermarono in un piazzale discosto dalla strada e proteso alla scogliera. Scesero dall’auto e si accostarono alla ringhiera sul mare.
La piazzetta era deserta e buia, non c’erano lampioni. Le luci e i suoni del traffico del lungomare arrivavano deboli.
C’era la più antica scenografia del mondo: la luna che rischiarava la notte e il mare che ne rifletteva l’argento. Si parlavano sottovoce. Lui disse che aveva avuto una giornata faticosa e lei che nel pomeriggio era riuscita a studiare.
Lui ricordò a lei e a sé stesso che l’indomani sarebbe partito. Lei guardava fissamente la luna e il nero cosmico orizzonte.
Ferruccio si zittì.
Vica disse che non aveva voglia di tornare a casa.
“Siamo dentro a una scena perfettamente romantica” aggiunse con dolcezza. E lo guardò.
Lui ricambiò ed ebbe il capogiro. Come l’ultimo dei sentimentaloni, la soffuse di sogno.
Si baciarono, finalmente, stretti in estasi l’uno all’altra. Fu un bacio intenso e interminabile, altro che Cary Grant e la Bergman in Notorious.
Mai aveva provato Ferruccio una così grande felicità. Gli parve d’aver subito una mutazione, come se natura e chimica, dentro, gli si fossero modificate.
Era vero quello che tanti dicevano, e cioè che il bacio profondo è tra gli atti più intimi e inebrianti dello scambio amoroso.
“A quanto pare abbiamo un romance” lei disse.
“Preferisco “abbiamo un amore”” lui ribatté.
Ferruccio riavvicinò il suo viso a quello di lei: “Ti amo, mia bella continentale” e di nuovo la baciò sulle labbra.
“Ti amo, piccolo moroso siciliano”.
Stettero abbracciati e, quando si staccarono, lei disse prosaica- mente che era il momento di tornare. Durante il breve tratto in auto non parlarono e prima di scendere lei lo salutò con gli occhi e una carezza sulla guancia.


7

Rientrato a casa, euforico, Ferruccio ricevette alle dieci una telefonata da Ada.
“Ciao”
“Ada. Come va?”
“Bene, tu come stai?”
“Bene”
“Per il resto? Parla”
“Per il resto cosa? Fammi far finta di non capire”
“Proprio”
“Ci siamo baciati, un’ora fa”
Lei si prese qualche secondo per assorbire la notizia “Mi fa piacere. Ma che vuol dire “ci siamo baciati”?”
“Che è stato un bacio, diciamo così, serio, insomma, impegnativo, almeno per me. Io ci ho creduto”
“E allora lo è stato anche per lei. E quella cosa non l’avete ancora fatta, quindi”
“No. Non l’abbiamo ancora fatta! Ma guarda che mi devo sentir dire”
“Fatela”
“Ma sentila!”
“Deficiente. Te l’avevo accennato, anche chiaramente, che hai un concorrente. Se vuoi saperlo è anche un concorrente pericoloso, una specie di playboy. Un tipo bello, torbido e tipicamente mediterraneo. Non credo che lei ci caschi, ma non è detto. L’ho messa in guardia ma uno così può farle effetto”
“L’ho conosciuto. È Luca Gerard e fa l’architetto”
“Sì, è lui. Non posso escludere che lei ci pensi o che vi stia mettendo in competizione. Ma penso di no se quel bacio è stato davvero buono. Però tu non ci scherzare. Non voglio che lei abbia a che fare con costui. Voglio che abbia a che fare solo con te. Se la vuoi, prenditela, prima che lo faccia qualcun altro. Più chiaro di così…”
“Senti Ada, scusa se te lo chiedo, ma tu con questo tizio…?”
“Vuoi sapere se mi ci sono messa? Hai una retro-gelosia? Stai tranquillo, non l’ho fatto. Non me lo dovresti chiedere.
Lo sai. L’avrò visto sì e no un paio di volte, praticamente non ci conosciamo. Però non mi fraintendere. A me, a pelle, ripugna, ma qualcun’altra potrebbe… vederlo meglio di come lo vedo io. In ogni caso non voglio assolutamente, assolutamente, che entri nel nostro mondo”.


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